Mentre ad Afrin e Gouza centinaia di civili vengono uccisi, ci domandiamo cosa sta accadendo. Partiamo dal basso. Il locale e i quartieri sono il laboratorio in cui forgiare pensieri capaci di raggiungere il globale, in cui identificare gli errori e tradurre questo apprendimento in pratiche capaci di risuonare con maggiore ampiezza.
In Alba è stato un inizio anno di tumulto. la manifestazione organizzata da Carovana Migrante a fine gennaio per difendere i diritti dei richiedenti asilo della zona, poi le partitelle antirazziste del collettivo Mononoke, il corteo antifascista organizzato dall’Anpi e infine Piazzetta Migrante in piazza San Giovanni. Parti della comunità si mobilitano in difesa dei soggetti deboli di questa fase storica: persone in migrazione per scappare da contesti di guerra miseria e conflitto. Persone che una volta arrivate in Italia vengono strumentalizzate dai partiti politici e diventano oggetto di aggressività, violenza verbale, attribuzioni di colpa dal punto di vista politico.
Da una parte chiediamo alla politica albese di rendere conto della loro assenza rappresentativa a questi eventi di piazza. Perché i rappresentanti istituzionali, tranne qualche sparuta presenza, latitavano? Perché mentre in passato le amministrazioni si mobilitavano oggi sembrano restie a comparire?
Pensiamo che questa sistematica assenza (con la sola eccezione del Partito Democratico durante il presidio antirazzista e antifascista che, guarda caso, cadeva proprio a ridosso delle elezioni del 4 marzo) possa essere spiegata con la paura. Come ho letto in un recente articolo, la paura e il disgusto sono sentimenti su cui la destra – e, aggiungiamo noi, qualsiasi gruppo politico orientato dal narcisismo e dal desiderio di potere, agli interessi personali piuttosto che a quelli del mondo in cui si trova a operare – attecchisce e prende voti. Nel caso dell’immigrazione la paura a livello territoriale è percepibile e leggibile nella larga diffusione di stereotipi e pregiudizi, idee e false credenze in materia.
Ci può venire in aiuto un concetto che in psicologia si chiama “euristica”. La definizione la prendiamo da Wikipedia:
“Il principio che giustifica l’esistenza di euristiche è quello secondo cui il sistema cognitivo umano è un sistema a risorse limitate che, non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici, fa uso di euristiche come efficienti strategie per semplificare decisioni e problemi”.
Dunque le euristiche portano spesso a errori.
Elenchiamo di seguito alcune principali manifestazioni in tema di migrazioni:
- “Sono centinaia, se non migliaia”. Oppure: “Siamo di fronte a un’invasione”. Se chiedete alle persone, in media vi risponderanno così alla domanda: quanti sono i rifugiati in città?” In verità sono 58 i rifugiati richiedenti asilo nelle strutture di accoglienza del territorio albese. Questo errore cognitivo portato dalla paura dipinge il nemico come più numeroso di quanto in verità sia.
- “Sono pelandroni, non fanno nulla tutto il giorno”. In verità la maggioranza dei ragazzi non vede l’ora di lavorare, se solo trovasse qualcuno che offre loro fiducia.
- “Sono ignoranti, selvaggi e pericolosi”. Questo preconcetto è dichiarato con minore facilità, perché etichetterebbe chi lo asserisce come razzista. Eppure è molto diffuso a livello implicito se non subconscio. In verità molti migranti e richiedenti asilo nella loro patria studiavano, lavoravano anche in posizioni elevate, ricoprivano un ruolo sociale importante che in Italia non riescono ad esprimere per colpa dello stigma sociale, delle difficoltà linguistiche, dell’impossibilità di integrazione.
- “Prendono 35 euro al giorno”. Non è vero. I richiedenti asilo prendono 2,5 euro al giorno, il resto va alla struttura ospitante che sovente crea un vero e proprio business sull’accoglienza. Molte altre strutture invece, come ad Alba la Cooperativa Alice, sono virtuose e innescano veri progetti di integrazione.
- “Sono violenti”. Non è vero. Il numero di reati commesso dai richiedenti asilo è in proporzione basso rispetto alla popolazione italiana, così come quello degli immigrati. Questo errore è una conseguenza dell’informazione televisiva e giornalistica, che sovente da risalto alla cittadinanza di chi commette reato solo se il “criminale” è straniero.
- Immigrati, stranieri, richiedenti asilo. C’è confusione su questi termini. Le persone sono pigre, non discriminano a livello linguistico e questa “approssimazione semantica” porta a confusioni, difficoltà interpretative dei dati comunicati ad esempio dai giornali, posizioni intellettuali precarie e marginali.
- “I richiedenti asilo sono uomini, forti, che avrebbero potuto lavorare nella loro patria e invece sono da noi a parassitare”. Non è vero. Ci sono molte donne, bambini, soggetti fragili. Nell’immaginario comune, però, il migrante è sovente associato alla figura maschile.
- “Gli immigrati potrebbero essere aiutati a casa loro”. Come dice la Lega. Non è vero. E’ quasi impossibile stabilire accordi con paesi africani, perlomeno azioni capaci di incidere in modo determinante sulla realtà sociopolitica locale, sovente caratterizzata da problematiche incistate nell’identità stessa della nazione e radicate nei secoli.
- “L’immigrazione è inutile”. Non è vero. A livello occupazionale potrebbe essere una risorsa perché coprirebbe molte posizioni altrimenti scoperte. A livello sociale e demografico compenserebbe l’invecchiamento della popolazione. A livello economico tutti ne guadagnerebbero in via indiretta, perché diminuirebbero i costi sociali legati ad esempio alla crescente cronicità sanitaria (ma queste considerazioni ci porterebbero lontano).
- “I nostri anziani faticano ad arrivare a fine mese e noi pensiamo agli immigrati”. E’ un’associazione mentale impropria. Si tratta di due problematiche differenti, le risorse disponibili per la previdenza potrebbero essere generate a prescindere dal sistema di accoglienza – la cui buona gestione potrebbe proprio generare risorse da dedicare alla terza età.
Ecco che i pregiudizi creano paura, la paura alimenta in pregiudizi. Un circolo vizioso che rende le persone deboli. I partiti giocano su questa vulnerabilità, perché comprendono come una comunicazione efficace possa utilizzare le lacune culturali delle persone per manipolarne l’opinione.
Anche perché tutto questo si lega a quell’antico timore che vede l’“Altro” e il diverso come minaccia, intrusione, violazione di un confine invisibile. Provate: il vostro nuovo vicino di casa è rumeno. O senegalese. Lo guardate trafficare dall’occhiolino della porta, sul pianerottolo tra il vostro e il suo appartamento. Sebbene vi dichiariate cosmopoliti e antirazzisti, una parte di voi non sarà contenta, almeno come immediata reazione. Una parte di voi sussurra: “Chissà cosa succede ora, siamo troppo diversi culturalmente, avremo dei problemi”.
La paura dell’ignoto e della differenza (in questo caso etnica, religiosa, culturale) è atavica e antica. Così come la percezione del gruppo di appartenenza come distinto e contrapposto a un nemico esterno. Se un gruppo di persone è unito dal sentimento di paura verso un altro gruppo si crea senso di appartenenza, omologazione e l’adesione a un’ideologia diventa più semplice. Inoltre, la vecchia metodologia semplificatrice del capro espiatorio è efficace: identificare un unico colpevole per ogni male è economico, facile, comodo. Il Nemico, il Male e lo Sbagliato devono essere sradicati. Questo rassicura anche sulla propria adeguatezza e bontà: “Se il Male è oltre il mio recinto, significa che nel mio recinto si pratica il Bene”. Ma si tratta di bugie profonde, che ci conducono lontani da noi stessi.
Nel complesso mondo sociopolitico e individuale questo ragionamento è soltanto una scheggia della complessa trama esplicativa, ma vogliamo contribuire a smascherare le false mitologie e narrazioni di parte che dominano questo periodo, dove una regressione emotiva, intellettuale e sociale sembra essersi innescata vanificando sforzi decennali di pensatori, poeti e militanti sul fronte dei diritti umani e del progresso sociale.
Tutto questo mentre ad Afrin e nel Gouza centinaia di civili vengono uccisi. C’è una foto che gira su internet: un bambino che fugge dalla città in una valigia del genitore. E’ esausto e stanco. Anche lui migra da un luogo all’altro, vittima di tiranni, omertà politiche e interessi economici. Proprio come, in un certo senso, i migranti ospitati in alcuni centri di accoglienza: stazionano in attesa di un permesso che non riceveranno mai, senza futuro né prospettive.
Che fare dunque? “Noi siamo impotenti” è un’altra falsa credenza. La maggioranza dimentica, finge di non accorgersi di ciò che accade perché il conflitto generato dalla consapevolezza del verificarsi di una tragedia e la sensazione di non poter far niente sarebbe troppo dispendioso e faticoso. Eppure. Una parte di noi si sente corresponsabile. Il bambino con la valigia o il migrante nei centri di Roddi e La Morra che vivono isolati dalla città, discriminati, senza possibilità di un lavoro o di un reale percorso di integrazione sono accomunati da un elemento: il fallimento della comunità nel prendersi cura delle proprie parti deboli. Il fallimento di ognuno di noi che scegliamo di anestetizzare una parte della mente e di “non vedere”. Che scegliamo di procedere per atti imitativi e comportarci come se niente fosse, colazione poi in macchina fino all’ufficio, pausa pranzo e poi in ufficio fino alle sei, una birra con gli amici e un film in televisione, poi a dormire, il giorno dopo tutto come prima.
Eppure. Le azioni pratiche che potremmo fare sarebbero tante. Scrivere, parlare, organizzare incontri, raduni, un post su Facebook, l’insegnamento ai nostri figli, la trasmissione di un metodo di pensiero, il semplice prestare attenzione ad alcune voci.
E soprattutto lavorare su di sé. Perché il problema, come abbiamo visto più sopra, è di natura personale ed emotiva. Il liberismo economico ha creato individui che pensano ai propri interessi, dimenticando il fuori e l’Altro, anzi considerandoli come minaccia. Lavorare sulle parti ancora accoglienti ed empatiche di noi, slegate dal desiderio di Difesa, di Accumulo, di Accaparramento.
Sviluppare un pensiero critico e autonomo, coltivare quella parte di “anima” emotiva e slegata da questioni utilitaristiche e materialistiche, non vulnerabile alle influenze dei gruppi politici o imprenditoriali, è un dovere che non può essere rimandato.