Chi inquina gode, chi s’accontenta muore – Storie di imprenditori predatori – parte 3

OGGI COSA FARE.

Riguardo al caso Italgelatine, e alle leggere sanzioni subite dall’azienda (quattro impianti su otto sono sotto osservazione ed è probabile che siano presto riattivati), è spontaneo domandarsi : perché ci hanno messo tanto? Perché questo timore cauto, questa reverenza timida verso le imprese, anche da parte di chi deve occuparsi della sorveglianza? E soprattutto, perché i titolari dell’azienda – consapevoli del rischio – hanno preferito trascurare gli effetti nocivi che il loro comportamento può avere sulla popolazione?
La giustificazione pubblica, quella dichiarata più o meno esplicitamente dagli imprenditori, sovente si
riferisce alla necessità di mantenere gli standard produttivi in modo da non compromettere la stabilità dei
posti di lavoro. Ma una logica di questo tipo non solo è auto-assolutoria, ma cade anche in un grave errore
epistemologico: posiziona l’economia prima dell’ecologia. Tradotto: non importa se i cittadini si ammalano,
se la loro salute è a rischio, e non importa se il pianeta langue a causa mia: l’importante è continuare a
lavorare. E’ evidente il paradosso implicito. Senza salute e senza un pianeta il lavoro non può esistere.
Ovviamente, il profitto e il mantenimento dei propri privilegi spingono questi potenti imprenditori a negare
(forse anche a se stessi?) la gravità della situazione, giustificando in maniera razionale l’ingiustificabile.

Oggi l’impresa di Santa Vittoria continua a produrre, non mostrando intenzione di reale cambiamento.
Verrà adeguato l’impianto, ma la puzza continuerà a rimanere nell’aria. Nessuna scusa, nessun intento di
riconvertire gli impianti in senso ecologico. Niente di niente. Solo silenzio da parte dei vertici
imprenditoriali. L’olezzo, passando in macchina nei pressi dell’azienda, si sente bene. Questa vicenda è
rappresentativa di tutte le altre. Dei torrenti che si tingono di schiuma, i pesci che muoiono, la sparizione di
ragni, lucciole e farfalle dalle nostre vigne.
Il capitalismo e le sue logiche di efficienza, produttività e profitto si incarnano in un atteggiamento
irriverente, irrispettoso, superbo e avido. Il peccato capitale dell’auto-referenzialità si manifesta in tutta la
propria potenza. I cittadini dal canto loro sono arrabbiati, ma impotenti. Che fare? Come eliminare i rischi
tutelando i posti di lavoro, si chiedono? Rispondiamo che la produzione può essere convertita in un’ottica
“green”, eppure manca la volontà di mobilitare risorse finanziando la ricerca sia da parte delle aziende che
dalle istituzioni. Costruire un modello alternativo insieme agli esperti è possibile. Se i vertici aziendali non lo
capiscono, fare pressione dal basso è un dovere. Scenderemo in campo per dire la nostra. Chiunque abbia
intenzione di contribuire a questa battaglia può scriverci in privato. Studieremo assieme le mobilitazioni
adeguate, in compagnia di esperti cercheremo di proporre un modello alternativo per proteggere un
mondo da predatori che, specchiandosi negli altri e nella natura, non vedono che se stessi.

Chi inquina gode, chi s’accontenta muore. Storie di imprenditori predatori. Parte 2

GOSSIP E ITALGELATINE
Il mondo della chiacchiera supera quello dell’impegno, il pettegolezzo attira più che l’emergenza. Così
accade che digitando la parola Italgelatine su Google non si parli delle molteplici e recenti infrazioni ai
parametri ambientali, della chiusura degli impianti ordinata dalle Forze dell’Ordine, della puzza che per
mesi si diffondeva in un raggio chilometrico amplissimo mettendo a rischio la nostra salute. I motori di
ricerca parlano invece del figlio della titolare fidanzato con una super modella, immortalando il primo bacio
estivo in riviera. La contrapposizione etica e contenutistica è estrema: da una parte le inutili frivolezze,
dall’altra l’emergenza climatica provocata da industrie che continuano ad anteporre la produzione
indiscriminata e nociva alle logiche ecologiche – dunque alla salute di tutti. Questa polarizzazione è un
meccanismo con cui si manifesta il potere: trasformare il dramma nel suo opposto, distrarre dalle
emergenze, anestetizzare le coscienze con dettagli piccanti. Ma andiamo con ordine.

CHE COS’E’ LA GELATINA
Italgelatine è un’azienda di Santa Vittoria d’Alba che produce, appunto, gelatine. Che a loro volta sono
composte per la maggioranza da gelatina animale, ottenuta dai suini e dai bovini, nello specifico dagli scarti
di animali macellati, soprattutto la pelle di maiale , usata per l’80% della gelatina
prodotta in Europa). Un altro 15% viene ricavato uno strato sottile di grasso presente sotto la pelle dei
bovini, il rimanente 5% da ossa e cartilagini di maiali e bovini. La gelatina è insapore e viene utilizzata in una
vasta gamma di prodotti, compresi formaggi e yogurt, minestre o condimenti per le insalate. Considerando
come gli allevamenti animali siano considerati uno dei primi fattori clima-alteranti e di consumo energetico,
si comprende come l’origine di questo alimento possa nuocere alla catena alimentare. Senza scordare un
monito per tutti: sulle etichette non è indicata con il suo nome, dunque chi volesse evitarla deve fare
attenzione. Sulle confezioni con la sigla E 441.

IL SOLFURO DI IDROGENO

Uno degli impianti di lavorazione dell’Italgelatine spande nell’aria un odore pestilenziale, il quale, per alcuni mesi ha addirittura  raggiunto la città di Alba, a oltre 10 chilometri di distanza. Si tratta del  solfuro di idrogeno e secondo molti studi è una sostanza nociva,  in particolare per i soggetti deboli, come anziani, bambini e soggetti asmatici.
La pressione degli organi di stampa ha costretto le autorità, dopo mesi di insistenza, a chiudere l’impianto fino ad
adeguamento alle norme. Da comunicato dei Carabinieri: “i motivi degli insopportabili odori sono da
attribuire al sistema di depurazione biologico, che non è stato in grado di abbattere alcune sostanze
chimiche provenienti dal ciclo produttivo e immesse nello scarico, causando criticità sulla qualità delle
acque del fiume Tanaro e dell’aria”. In altre parole, l’industria ha contaminato la natura, l’ha ammalata, creando un serio rischio per la
popolazione e (non è da escludere) reali complicanze sanitarie.

 

Continua .

Chi inquina gode, chi s’accontenta muore. Storie di imprenditori predatori. Parte 1

UNA SERIE DI INTERMINABILI EVENTI

Marzo 2019, Dogliani: un allevatore di suini che riversa nel Rio Gamba scarichi abusivi è denunciato: il fiume si tinge di colori anomali.

Giugno e luglio 2019: dalla ditta Italgelatine arriva puzza di marcio e la nube si diffonde nell’aria chilometri, dura intere settimane. Agosto, un fiume a Canale che diventa bianco e i pesci morti galleggiano sulla sua superficie.

Agosto 2019, Niella Tanaro: la ditta B&A gestisce scorie e ceneri provenienti dall’industria pesante senza inertizzarle e trattarle come dovrebbe, provocando la contaminazione di un intero sito. Senza contare le tonnellate di plastica nei rii, gli scarichi abusivi nel Tanaro, i trattamenti intensivi a vigne e nocciole.

Le sostanze nocive finiscono nei nostri polmoni, nelle verdure che mangiamo e nella carne, nell’acqua che beviamo. I reati ambientali si moltiplicano, come un castigo che l’umanità infligge a se stessa e il sintomo di un sistema fondato su premesse fallimentari e disfunzionali.

Eppure, nella maggioranza dei casi queste infrazioni rimangono impunite. Gli agricoltori e le imprese potrebbero riconvertire in modo “green” la propria produzione, ma non lo fanno per mancanza di supporto o per inedia, per avidità o disperazione. Nella prossima parte analizzeremo il caso più eclatante, quello a noi più vicino a livello geografico.

 

 

Italgelatine e acido solfidrico: riflessioni e analisi di un cittadino albese

SI DICE INQUINAMENTO MA LO CHIAMANO PROGRESSO

Nelle ultime due settimane avevo difficoltà a respirare. Sono un soggetto asmatico fin da bambino, ma oggi grazie allo sport e a un’attenzione costante non soffro di alcun problema particolare. Eppure, parlando con alcuni compagni albesi, ho capito che non ero il solo negli ultimi giorni con questa difficoltà. Altre persone – perlopiù con trascorsi clinici simili ai miei – riportavano fatica nell’inspirazione o una leggera occlusione bronchiale.

Negli stessi giorni, l’odore nauseante proveniente dall’impianto Italgelatine di Santa Vittoria d’Alba occupava Alba e tutto il circondario. Per molte settimane a intermittenza si respirava il caratteristico odore di uova marce che, come spiegavano i giornali locali, è dovuto all’acido solfidrico (H2S) detto anche idrogeno solforato. Istituzioni come Arpa Piemonte e l’Asl Cn2 si sono affrettate a dichiarare che non esiste nessun pericolo, che le concentrazioni sono troppo basse per causare danni. Senza parlare dell’azienda, che minimizzava e rassicurava.

Ma qualcosa non mi tornava. Anche perché le istituzioni – un tavolo tecnico formato da molti comuni della zona – si sono riunite a inizio aprile per discutere la situazione. Non mi sembrava normale. Perché la politica locale si mobilita se non sussiste alcun pericolo? Inoltre, come apparso sui giornali locali, esistono pareri discordanti. Uno startupper che si occupa di qualità dell’aria ha spiegato sulle pagine di un settimanale che nello stabilimento, tanto è forte la puzza, i dipendenti d’inverno devono tenere le finestre aperte in modo da garantire il ricircolo. Peraltro, per quanto riguarda le rilevazioni effettuate da Arpa, lo startupper osservava come le soglie massime consentite dalla legge di acido solfidrico nell’aria siano molto “benevole”, ovvero non severe in Italia – in modo da consentire ampi margini di operatività alle aziende. Insomma, bisognava approfondire.

Cercando su internet sono perciò incappato in uno studio di due studiosi di università californiane, Maria Rita D’Orsogna e Thomas Chou (2010). Nell’introduzione il testo cita: “L’H2S, classificato ad alte concentrazioni come veleno, a basse dosi può causare disturbi neurologici, respiratori, motori, cardiaci e potrebbe essere collegato ad una maggiore incorrenza di aborti spontanei nelle donne. A volte questi danni sono irreversibili. Da risultati recentissimi emerge anche la sua potenzialità, alle basse dosi, di stimolare la comparsa di cancro al colon”.

Ecco gli effetti dell’H2S a varie concentrazioni in aria:

  • Soglia dell’ attivazione dell’ odorato: 0.05 ppm (parti per milione)
  • Odore offensivo: 3 ppm
  • Soglia dei danni alla vista: 50 ppm
  • Paralisi olfattoria: 100 ppm
  • Edema polmonare, intossicazione acuta: 300 ppm
  • Danni al sistema nervoso, apnea: 500 ppm
  • Collasso, paralisi, morte immediata: 1000 ppm

I modi con cui l’H2S entra nel corpo umano sono tre

  1. per inalazione attraverso i polmoni;
  2. per via orale, specialmente dalla digestione di sostanze contaminate assorbite nel tratto intestinale, prima fra tutte l’acqua;
  3. attraverso la pelle

Proseguono gli autori: “A volte gli effetti possono anche essere lievi, come i danni agli occhi. Una delle conseguenze più comuni di una esposizione all’H2S è l’irritazione degli occhi, anche ad esposizioni basse. Fra i sintomi più comuni: lacrimazione, congiuntiviti, bruciori, sensibilità alla luce ulcerazione e mancanza di messa a fuoco”.

I bruciori agli occhi e al naso, tosse mal di testa possono iniziare già alla soglia di 0.0057 ppm con esposizione cronica e collettiva (proprio come avvenuto ad Alba).

Ma l’elemento più preoccupante è quello legato ai soggetti deboli, ad esempio bambini e anziani – che ovviamente risultano più vulnerabili.

Spiegano gli autori dello studio: “I bambini sono più vulnerabili degli adulti agli effetti dell’H2S perché respirano più velocemente inalando maggiori quantità di sostanze inquinanti. Ad esempio un neonato respira, in percentuale relativa al proprio peso corporeo, il doppio di un adulto. I bambini inoltre trascorrono molto più tempo degli adulti negli spazi esterni, ed in genere le loro attività di gioco e di sport richiedono grandi quantità di ossigeno che li portano a respirare a tassi più elevati che se fossero in condizioni di riposo. I loro corpi sono inoltre meno maturi di quelli degli adulti e per questo sono più vulnerabili agli attacchi di sostanze tossiche in generale. Infine, poiché esistono forti legami fra possibili danni neurologici e l’H2S, e visto che la fase più importante di sviluppo del cervello avviene durante l’infanzia, i danni neurologici collegati all’esposizione da H2S hanno la potenzialità di durare tutta la vita”.

Poi la correlazione con i tumori: “Finora i dati presenti nella letteratura medico-scientifica non sono sufficienti a stabilire un legame quantitativo fra esposizione all’H2S ed il cancro, a causa di una insufficienza di studi. Molto recentemente però è stata presentata la possibilità di correlazione fra esposizione all’H2S e l’insorgenza di danni al DNA. Queste sono le “molecole della vita” che includono in se il codice genetico di ciascun essere umano. I danni al DNA vengono chiamati “mutazioni a livello genetico” e sono spesso legati all’insorgere di tumori. Questi studi sono di recentissima pubblicazione (2006, 2007) e ulteriori studi saranno necessari per quantificare gli effetti dell’H2S sul possibile insorgere di malattie tumorali. In natura, o molto pi`u spesso per sintesi chimica, vi sono alcune sostanze, dette carcinogeniche che causano l’insorgere del cancro. Per queste sostanze la correlazione fra l’esserne esposti e lo sviluppo di masse tumorali è stato provato in maniera inconfutabile”.

Infine, “effetti tossici dell‘H2S sono presenti anche sugli animali con effetti simili a quelli riportati per l’uomo. Alcuni studi mostrano una potenziale correlazione fra modifiche neurologiche e anatomiche in topi da esperimento in seguito all’esposizione all’H2S”.

E l’amara conclusione. Dicono gli autori riprendendo il rapporto ufficiale delle Nazioni Unite: “a causa dei gravi effetti tossici dovuti all’esposizione alle alte concentrazioni di H2S per brevi periodi di tempo, qualsiasi tipo di contatto con questa sostanza deve essere evitato”.

La vera domanda che dobbiamo porci è: perché le aziende continuano a operare indisturbate, senza rendere conto alla cittadinanza con dati specifici invece che con generiche dichiarazioni di rassicurazione?

Perché le merci e i prodotti continuano ad essere mitizzati e considerati “al centro” a discapito delle persone e della loro salute? Perché la politica non interviene? Dobbiamo far sentire la nostra voce. Se anche esistesse una sola probabilità su mille che lo studio riportato avesse ragione (ed esiste eccome questa probabilità, utilizzando il buonsenso e la ragionevolezza), dovremmo indignarci per come enti ufficiali abbiano “liquidato” la questione in modo sbrigativo e soprattutto i vertici aziendali si dimostrino, ormai da decenni, insensibili al danno prodotto nella popolazione. Che nel migliore dei casi è un danno sulla qualità della vita (un odore insopportabile e di uova marce che infesta l’aria di chi abita attorno allo stabilimento e di tutto il territorio circostante), ma più presumibilmente crea riniti, infiammazioni, danni ancora ignoti ai soggetti deboli, forse danni neurologici o peggio.

Ancora una volta, il modello economico e produttivo che tutti danno per scontato manifesta tutta la sua pericolosità e insostenibilità per una qualità di vita adeguata. I suoi frutti risultano velenosi per gli esseri di questo pianeta, noi compresi. E spesso, chi si gonfia le tasche deturpando la Terra e la natura, chiama questo processo di distruzione col nome di progresso. In realtà a conti fatti, altro non che è sovrapproduzione volta al profitto e allo sfruttamento – inquinamento che costantemente si propaga.
Rompere il silenzio, al fine di realizzare un futuro alternativo, ecosostenibile e rispettoso nei confronti di qualsiasi essere vivente – un mondo in cui si produca e si costruisca solo il necessario.

Le multinazionali entrano in università

COMUNICATO del 24/12/2019
Sulla presenza di multinazionali in università, sulla battaglia iniziata. E lettera di una studentessa.

In una palazzina universitaria, (nonostante sia evidente la carenza di aule, spazi pubblici e gratuiti dedicati agli studenti) è stato aperto un fast food. Per la precisione si tratta di un Burger King e il luogo di cui si sta parlando non coincide con gli Stati Uniti, dove le aziende sono già entrate nelle scuole pubbliche da molti anni al fine di lucrare su giovani studenti – istruzione sfruttata in nome del business. Si parla di Torino e dell’universita degli studi. E del rettore che ha privilegiato le aziende.

Oggi durante una protesta contro il colosso americano e contro la svendita di luoghi pubblici ad affaristi, alcuni studenti sono stati colpiti dalle forze dell’ordine: si era previsto di consumare un pranzo casalingo e di studiare nei locali targati BK. Una protesta pacifica che si è conclusa con violente cariche sia nel locale sia davanti al rettorato. Poi addirittura un fermo.
Esprimiamo solidarietà ai compagni di Noi Restiamo Torino, promotori dell’iniziativa e a tutti i partecipanti.
Con rabbia, pubblichiamo di seguito una riflessione di una studentessa di Lingue e del collettivo Mononoke:

“Quella palazzina doveva servire come sede di varie facoltà senza ‘dimora’, dopo il problema amianto di Palazzo Nuovo. In tutti questi anni di corsi siamo stati sballottati da una sede all’ altra senza avere tempo di mangiare pranzo o di fermarci per una pausa: le distanze sono piuttosto “lunghe” – via verdi corso regina Margherita – in un tempo ridottissimo (15min) per arrivare puntuale a lezione.

Ora dopo anni di lavori, si scopre che multinazionali come McDonald e BurgerKing diventano parte di questo edificio proponendo cibo spazzatura e cercando di sfruttare gli studenti.
Non so se avete avuto modo di vedere come sta andando, ma gli spazi occupati da queste multinazionali sono grandi, spazi che sarebbero potuti servire come luoghi di incontro per studenti, o come aule studio (che fanno sempre bene) .

Da studente sono indignata per questo schifo. Ci sarò anche io giovedì prossimo, contro i privati negli spazi pubblici “.

Link flash mob giovedì 31 gennaio:
m.facebook.com/events/2001027823285577

Link articolo:
https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/01/24/news/torino_flash_mob_contro_il_fast_food_all_universita_polizia_in_tenuta_antisommossa_respinge_i_contestatori-217356272/?ref=fbplto

Vogliono chiudere il pronto soccorso di Alba

Pic by targatocn

“Protestare per il nuovo ospedale di Verduno?”, “Mah, ormai è fatta”: sono, ormai da mesi, botta e risposta sulla bocca degli albesi, dei braidesi, e di chi vive i territori limitrofi. Dietro a queste parole, però, c’è frustrazione e rabbia. ‘Frustrazione’ perché i milioni di euro spesi – soldi pubblici – potevano servire per migliorare i servizi dei due ospedali o per realizzare altri progetti (scuole, case popolari, strade, parchi). E ‘rabbia’, perché ora ci si ritrova con un ospedale, costruito in mezzo a una collina, lontano da Alba e da Bra, scomodo e non connesso adeguatamente in termini di infrastrutture e servizi di trasporto pubblico/privato. In poche parole, con una cattedrale nel deserto. Per non parlare, poi, dell’impatto ecologico devastante sull’habitat che – va ricordato – è stato riconosciuto parte del patrimonio Unesco.

Pic by lastampa

Oggi, quindi, non vogliamo parlare di sperpero delle risorse pubbliche; non vogliamo porre l’attenzione sull’impatto che il nuovo ospedale ha avuto e avrà sull’ecosistema; non vogliamo neppure ragionare intorno alla realizzazione di un progetto tanto faraonico quanto assurdo. No, perché i cittadini hanno capito bene come funziona questa ‘grande opera’, come ogni ‘grande opera’ d’altronde: in pochi, politici e non, decidono le sorti di una comunità; i soldi, di tutti, vengono usati per un progetto inutile, se non persino dannoso; le ricadute, sul territorio, sono complessivamente negative, in termini di accesso ai servizi, di spesa pubblica, ma anche di ricchezza che va, in pratica, tutta alle ditte costruttrici.
Oggi, è importante, invece, comprendere cosa sta succedendo e cosa avverrà a breve. Partiamo col dire che per proteggere gli interessi dei pochi che hanno voluto l’ospedale si è giunti, persino, a imporre il silenzio tra i dipendenti delle asl. Ovviamente, la richiesta, visto il contesto, suona come una minaccia vera e propria. Ecco perché non se ne parla. E andiamo, allora, al presente. Perché si stanno comportando in questo modo? Cosa non ci stanno dicendo? La risposta è facile: a breve, appena aprirà il nuovo ospedale di Verduno, non ci sarà più il pronto soccorso ad Alba. Vuol dire che bisognerà, per qualsiasi tipologia di emergenza, arrivare fino a Verduno, dalla colica all’infarto, dalla patologia dei bambini a quella degli anziani. Questo è assurdo!
Qualcosa, forse, può essere ancora fatto se tutti insieme chiediamo che un presidio ospedaliero, almeno per le emergenze, rimanga ad Alba. Questa non è una questione politica, riguarda tutti! Vi chiediamo, albesi, di condividere questo post, di renderlo virale sulla rete. Vi chiediamo di mettere in pratica un atto di resistenza, di dire no a chi decide per noi tutti senza neppure chiederci un parere. Riprendiamoci ciò che è nostro, otteniamo che il pronto soccorso rimanga ad Alba!

 

PER DUE SPICCI IN PIU’

L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE DECIDE DI AUMENTARE LA MENSA AI POVERI, DICHIARIAMO IL NOSTRO DISSENSO

Quando ero piccolo i miei genitori non potevano permettersi più di una pizza al mese, al ristornate non andavamo mai. Quando festeggiavamo, mio padre portava a casa un baracchino di cozze acquistate in pescheria: per noi erano il cibo più prezioso.

Molti pasti li consumavo alla mensa scolastica. Ricordo ancora oggi l’odore della pagnotta e del parmigiano. Ero felice che i miei potessero permettersi quel servizio, percepito anch’esso come un lusso.

Questi ricordi sono apparsi nel 2018 quando, camminando per le vie della città a fine settembre, entriamo in un bar. Ci sediamo ai tavolini, apriamo a caso un giornale locale. Spunta una notizia, sembra innocua, parla del servizio mensa per gli studenti delle scuole materne, elementari e medie.

Gestita dalla ditta Sodexo e orchestrata dall’amministrazione comunale, la mensa rappresenta un momento importantissimo per la vita dei bambini, sia dal punto di vista nutrizionale che sociale. Quest’anno, dice l’articolo, si è deciso di alzare il costo dei pasti di 5 centesimi l’uno. Non solo per le fasce più abbienti, ma anche per i poverissimi (con Isee pari a zero!).

La cifra può sembrare bassa, ma se moltiplicata per un numero di figli pari a 2 o 3 e spalmata su tutto l’anno, significa che le famiglie che già versano in condizioni di indigenza dovranno sopportare un peso aggiuntivo sul già difficile bilancio familiare.

Il vicesindaco Elena di Liddo dichiara che si tratta di una scelta dovuta e obbligata, perché le tariffe vanno conformate agli adeguamenti Istat (chi sono? Qualcuno li ha mai conosciuti questi adeguamenti Istat? Come calcolano il costo di una vita?), ma non è vero. Amministrazione comunale e Sodexo avrebbero potuto decidere di non alzare le tariffe per i poveri. Per le pingui casse pubbliche albesi o per la cassaforte di un imprenditore, ciò non avrebbe certo comportato il collasso.

La scelta politica è stata dunque precisa: privilegiare la cassa, la matematica, il portafoglio. Del resto, meglio avere più soldi in cassa e dedicarli a opere in grado di garantire consenso elettorale (come l’edificazione di una scuola, l’adeguamento di un parco, di una strada) che dedicare risorse ai soggetti deboli – storicamente, questo comportamento solidale non porta consenso elettorale, gli riesce minore visibilità.

Per capire l’importanza della questione, basta considerare come in Alba 900 famiglie (quasi tremila persone) abbiano richiesto la tessera per l’emporio solidale, il negozio che vende cibi a prezzi bassissimi. Per ottenere questa tessera l’Isee deve essere molto basso. In altre parole, bisogna essere molto poveri. Nella città narrata come “ricca” e “felice”, quasi uno su dieci sono in condizioni talmente difficili da non potersi permettere i generi alimentari. Eppure l’amministrazione, in un momento storico caratterizzato da incertezza e fatica economica, precarietà, paura e confusione esistenziale, sceglie di aumentare le tariffe della mensa. Per due spicci in più.

Vogliamo affermare il nostro dissenso, forte, indignato, un grido che magari – prima o poi – qualcuno sveglierà.

SIAMO TUTT* SACKO!

Il 2 giugno scorso un ventinovenne è stato assassinato.
Il suo nome era Soumayla Sacko, bracciante emigrato in Calabria dal Mali – alle spalle una famiglia alla quale inviare parte del guadagno mensile.

Nel vibonese, nei pressi della baraccapoli di San Ferdinando (dove cinque mesi fa  perse la vita la giovane nigeriana Becky Moses a causa di un incendio) c’è una fabbrica dismessa e confiscata. Quattro ragazzi africani per ovviare alla mancanza di posti letto, si recano nel cortile dell’ex Fornace in cerca di pezzi utili da riportare al campo. Poi quattro spari e Soumayla cade a terra colpito alla testa. Un tiro al bersaglio che ha prodotto altri due feriti.
Il giorno successivo in memoria del giovane ucciso un corteo per le strade di Gioia Tauro scandisce il coro “Toccano uno, toccano tutti”. In tutta Italia i movimenti e i sindacati scendono in piazza per ricordare il compagno assassinato.
Aboubakar Soumahoro, dirigente del sindacato autonomo Usb ha dichiarato “A Salvini vogliamo dire che la pacchia è finita per lui, perché risponderemo. Per noi la pacchia non è mai esistita, per noi esiste il lavoro”.

Sacko viveva come da sempre sono costretti a (sopra)vivere tutti i migranti del mondo. Il disagio dei lavoratori internazionali si genera dal concetto di manodopera a bassocosto, oro per il padrone – il lavoro stagionale consente il risparmio totale: gli operai sono sottopagati, dormono ammassati e mangiano male. Perchè chi è povero, chi è disperato s’accontenta, molti imprenditori colgono la palla al balzo per ottimizzare i profitti – s’innesca così un meccanismo di sfruttamento, di diritti calpestati.
Ma non tutti ingoiano il rospo.
Soumayla lottava per maggiore dignità, per vivere in condizioni migliori. 3 euro all’ora non bastano per costruire un futuro: per questo era iscritto al sindacato di base USB, per tentare di mutare lo status quo di un sistema spietato – la mancanza di dignità degli sfruttati non smuove gli animi delle classi dirigenti, né tantomeno le coscienze popolari.

Da qualche anno in Italia prolifera nel substrato culturale un germe d’inconsapevole razzismo, è il senso comune colmo d’odio, fomentato da molti rappresentanti politici e dall’apparato mediatico. E talvolta si sfiora il paradosso – soprattutto in quel sud Italia, che ancora dovrebbe fare i conti con lo spettro dei terroni, della discriminazione e della ghettizzazione attuata mezzo secolo fa dal regno sabaudo e dalla pianura padana tutta. Ma si sa, se il popolo cade nella lotta tra poveri, chi comanda agisce indisturbato – è la logica del divide et impera. E pare che di questi tempi funzioni bene in Penisola.

Per noi  i confini non esistono, non esistono stranieri.
Esistono oppressi ed oppressori.
Sfruttati e sfruttatori.
Perciò siamo tutt* Soumayla Sacko.

 

MENTRE AFRIN SOFFRE, UNA LOTTA DI TUTTI: DIECI PREGIUDIZI SUI MIGRANTI DI CUI DOVRESTI ESSERE CONSAPEVOLE

  Mentre ad Afrin e Gouza centinaia di civili vengono uccisi, ci domandiamo cosa sta accadendo. Partiamo dal basso. Il locale e i quartieri sono il laboratorio in cui forgiare pensieri capaci di raggiungere il globale, in cui identificare gli errori e tradurre questo apprendimento in pratiche capaci di risuonare con maggiore ampiezza.  

In Alba è stato un inizio anno di tumulto. la manifestazione organizzata da Carovana Migrante a fine gennaio per difendere i diritti dei richiedenti asilo della zona, poi le partitelle antirazziste del collettivo Mononoke, il corteo antifascista organizzato dall’Anpi e infine Piazzetta Migrante in piazza San Giovanni. Parti della comunità si mobilitano in difesa dei soggetti deboli di questa fase storica: persone in migrazione per scappare da contesti di guerra miseria e conflitto. Persone che una volta arrivate in Italia vengono strumentalizzate dai partiti politici e diventano oggetto di aggressività, violenza verbale, attribuzioni di colpa dal punto di vista politico.

Da una parte chiediamo alla politica albese di rendere conto della loro assenza rappresentativa a questi eventi di piazza. Perché i rappresentanti istituzionali, tranne qualche sparuta presenza, latitavano? Perché mentre in passato le amministrazioni si mobilitavano oggi sembrano restie a comparire?

Pensiamo che questa sistematica assenza (con la sola eccezione del Partito Democratico durante il presidio antirazzista e antifascista che, guarda caso, cadeva proprio a ridosso delle elezioni del 4 marzo) possa essere spiegata con la paura. Come ho letto in un recente articolo, la paura e il disgusto sono sentimenti su cui la destra – e, aggiungiamo noi, qualsiasi gruppo politico orientato dal narcisismo e dal desiderio di potere, agli interessi personali piuttosto che a quelli del mondo in cui si trova a operare – attecchisce e prende voti. Nel caso dell’immigrazione la paura a livello territoriale è percepibile e leggibile nella larga diffusione di stereotipi e pregiudizi, idee e false credenze in materia.

Ci può venire in aiuto un concetto che in psicologia si chiama “euristica”. La definizione la prendiamo da Wikipedia:

Il principio che giustifica l’esistenza di euristiche è quello secondo cui il sistema cognitivo umano è un sistema a risorse limitate che, non potendo risolvere problemi tramite processi algoritmici, fa uso di euristiche come efficienti strategie per semplificare decisioni e problemi”.

 

Dunque le euristiche portano spesso a errori.

Elenchiamo di seguito alcune principali manifestazioni in tema di migrazioni:

  1. “Sono centinaia, se non migliaia”. Oppure: “Siamo di fronte a un’invasione”. Se chiedete alle persone, in media vi risponderanno così alla domanda: quanti sono i rifugiati in città?” In verità sono 58 i rifugiati richiedenti asilo nelle strutture di accoglienza del territorio albese. Questo errore cognitivo portato dalla paura dipinge il nemico come più numeroso di quanto in verità sia.
  2. “Sono pelandroni, non fanno nulla tutto il giorno”. In verità la maggioranza dei ragazzi non vede l’ora di lavorare, se solo trovasse qualcuno che offre loro fiducia.
  3. “Sono ignoranti, selvaggi e pericolosi”. Questo preconcetto è dichiarato con minore facilità, perché etichetterebbe chi lo asserisce come razzista. Eppure è molto diffuso a livello implicito se non subconscio. In verità molti migranti e richiedenti asilo nella loro patria studiavano, lavoravano anche in posizioni elevate, ricoprivano un ruolo sociale importante che in Italia non riescono ad esprimere per colpa dello stigma sociale, delle difficoltà linguistiche, dell’impossibilità di integrazione.
  4. “Prendono 35 euro al giorno”. Non è vero. I richiedenti asilo prendono 2,5 euro al giorno, il resto va alla struttura ospitante che sovente crea un vero e proprio business sull’accoglienza. Molte altre strutture invece, come ad Alba la Cooperativa Alice, sono virtuose e innescano veri progetti di integrazione.
  5. “Sono violenti”. Non è vero. Il numero di reati commesso dai richiedenti asilo è in proporzione basso rispetto alla popolazione italiana, così come quello degli immigrati. Questo errore è una conseguenza dell’informazione televisiva e giornalistica, che sovente da risalto alla cittadinanza di chi commette reato solo se il “criminale” è straniero.
  6. Immigrati, stranieri, richiedenti asilo. C’è confusione su questi termini. Le persone sono pigre, non discriminano a livello linguistico e questa “approssimazione semantica” porta a confusioni, difficoltà interpretative dei dati comunicati ad esempio dai giornali, posizioni intellettuali precarie e marginali.
  7. “I richiedenti asilo sono uomini, forti, che avrebbero potuto lavorare nella loro patria  e invece sono da noi a parassitare”. Non è vero. Ci sono molte donne, bambini, soggetti fragili. Nell’immaginario comune, però, il migrante è sovente associato alla figura maschile.
  8. “Gli immigrati potrebbero essere aiutati a casa loro”. Come dice la Lega. Non è vero. E’ quasi impossibile stabilire accordi con paesi africani, perlomeno azioni capaci di incidere in modo determinante sulla realtà sociopolitica locale, sovente caratterizzata da problematiche incistate nell’identità stessa della nazione e radicate nei secoli.
  9. “L’immigrazione è inutile”. Non è vero. A livello occupazionale potrebbe essere una risorsa perché coprirebbe molte posizioni altrimenti scoperte. A livello sociale e demografico compenserebbe l’invecchiamento della popolazione. A livello economico tutti ne guadagnerebbero in via indiretta, perché diminuirebbero i costi sociali legati ad esempio alla crescente cronicità sanitaria (ma queste considerazioni ci porterebbero lontano).
  10. “I nostri anziani faticano ad arrivare a fine mese e noi pensiamo agli immigrati”. E’ un’associazione mentale impropria. Si tratta di due problematiche differenti, le risorse disponibili per la previdenza potrebbero essere generate a prescindere dal sistema di accoglienza – la cui buona gestione potrebbe proprio generare risorse da dedicare alla terza età.  

Ecco che i pregiudizi creano paura, la paura alimenta in pregiudizi. Un circolo vizioso che rende le persone deboli. I partiti giocano su questa vulnerabilità, perché comprendono come una comunicazione efficace possa utilizzare le lacune culturali delle persone per manipolarne l’opinione.

Anche perché tutto questo si lega a quell’antico timore che vede l’“Altro” e il diverso come minaccia, intrusione, violazione di un confine invisibile. Provate: il vostro nuovo vicino di casa è rumeno. O senegalese. Lo guardate trafficare dall’occhiolino della porta, sul pianerottolo tra il vostro e il suo appartamento. Sebbene vi dichiariate cosmopoliti e antirazzisti, una parte di voi non sarà contenta, almeno come immediata reazione. Una parte di voi sussurra: “Chissà cosa succede ora, siamo troppo diversi culturalmente, avremo dei problemi”.

La paura dell’ignoto e della differenza (in questo caso etnica, religiosa, culturale) è atavica e antica. Così come la percezione del gruppo di appartenenza come distinto e contrapposto a un nemico esterno. Se un gruppo di persone è unito dal sentimento di paura verso un altro gruppo si crea senso di appartenenza, omologazione e l’adesione a un’ideologia diventa più semplice. Inoltre, la vecchia metodologia semplificatrice del capro espiatorio è efficace: identificare un unico colpevole per ogni male è economico, facile, comodo. Il Nemico, il Male e lo Sbagliato devono essere sradicati. Questo rassicura anche sulla propria adeguatezza e bontà: “Se il Male è oltre il mio recinto, significa che nel mio recinto si pratica il Bene”. Ma si tratta di bugie profonde, che ci conducono lontani da noi stessi.

Nel complesso mondo sociopolitico e individuale questo ragionamento è soltanto una scheggia della complessa trama esplicativa, ma vogliamo contribuire a smascherare le false mitologie e narrazioni di parte che dominano questo periodo, dove una regressione emotiva, intellettuale e sociale sembra essersi innescata vanificando sforzi decennali di pensatori, poeti e militanti sul fronte dei diritti umani e del progresso sociale.

Tutto questo mentre ad Afrin e nel Gouza centinaia di civili vengono uccisi. C’è una foto che gira su internet: un bambino che fugge dalla città in una valigia del genitore. E’ esausto e stanco. Anche lui migra da un luogo all’altro, vittima di tiranni, omertà politiche e interessi economici. Proprio come, in un certo senso, i migranti ospitati in alcuni centri di accoglienza: stazionano in attesa di un permesso che non riceveranno mai, senza futuro né prospettive.

Che fare dunque? “Noi siamo impotenti” è un’altra falsa credenza. La maggioranza dimentica, finge di non accorgersi di ciò che accade perché il conflitto generato dalla consapevolezza del verificarsi di una tragedia e la sensazione di non poter far niente sarebbe troppo dispendioso e faticoso. Eppure. Una parte di noi si sente corresponsabile. Il bambino con la valigia o il migrante nei centri di Roddi e La Morra che vivono isolati dalla città, discriminati, senza possibilità di un lavoro o di un reale percorso di integrazione sono accomunati da un elemento: il fallimento della comunità nel prendersi cura delle proprie parti deboli. Il fallimento di ognuno di noi che scegliamo di anestetizzare una parte della mente e di “non vedere”. Che scegliamo di procedere per atti imitativi e comportarci come se niente fosse, colazione poi in macchina fino all’ufficio, pausa pranzo e poi in ufficio fino alle sei, una birra con gli amici e un film in televisione, poi a dormire, il giorno dopo tutto come prima.

Eppure. Le azioni pratiche che potremmo fare sarebbero tante. Scrivere, parlare, organizzare incontri, raduni, un post su Facebook, l’insegnamento ai nostri figli, la trasmissione di un metodo di pensiero, il semplice prestare attenzione ad alcune voci.

E soprattutto lavorare su di sé. Perché il problema, come abbiamo visto più sopra, è di natura personale ed emotiva. Il liberismo economico ha creato individui che pensano ai propri interessi, dimenticando il fuori e l’Altro, anzi considerandoli come minaccia. Lavorare sulle parti ancora accoglienti ed empatiche di noi, slegate dal desiderio di Difesa, di Accumulo, di Accaparramento.  

Sviluppare un pensiero critico e autonomo, coltivare quella parte di “anima” emotiva e slegata da questioni utilitaristiche e materialistiche, non vulnerabile alle influenze dei gruppi politici o imprenditoriali, è un dovere che non può essere rimandato.

“Aiutiamoli (a starsene) a casa loro”

“Aiutiamoli a casa loro” è lo slogan che sempre più viene ripetuto come un mantra da parte di gran parte dei partiti politici. Detto fatto: il governo Gentiloni non ha perso l’occasione per declinarlo a modo suo, e come ultimo lascito del suo operato ha approvato, con i voti del PD e della destra in Parlamento, una missione militare in Niger (ex-colonia francese). Un contingente di 470 soldati andrà ad ingrossare le fila dei 3000 militari francesi già presenti sul territorio nigerino con l’operazione “Barkhane”, nel quadro più ampio della missione del G5-Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania).

Le motivazioni ufficiali, neanche a dirlo, sarebbero la lotta al terrorismo islamista e la lotta ai traffici di esseri umani; ma sappiamo bene che quando si tratta di missioni militari esistono sempre degli obiettivi e delle strategie che vengono celati, neanche troppo bene a dire la verità, come il mantenimento dell’influenza politica e lo sfruttamento delle risorse naturali. Se la Francia è presente in quell’area anche per proteggere gli enormi giacimenti di uranio sfruttati dal gigante di stato Areva, l’Italia sembra voler mettere gli scarponi sul terreno per supportare la politica neo-coloniale francese (in cambio di cosa?), e soprattutto per bloccare i sentieri battuti dai migranti che cercano di attraversare il deserto per raggiungere le sponde sud del Mediterraneo. Insomma, aiutiamoli a starsene a casa loro. D’altronde com’è che si dice? Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

 

Il Niger è solo l’ultimo di una serie di paesi nei quali l’Italia è impegnata a difendere i sacri interessi nazionali o con i quali stringe rapporti economico-militari importanti. Si pensi ad esempio alla Nigeria, stato dal quale tantissime persone partono alla volta dell’Europa (passando proprio dal Niger), e nel quale l’Eni fa affari d’oro e disastri ecologici sfruttando il petrolio e il gas nella zona del delta del fiume Niger, senza nessun rispetto per le popolazioni locali. Si pensi all’Arabia Saudita, alla quale l’Italia (che ripudia la guerra) vende le bombe fabbricate in Sardegna, che vengono utilizzate nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti e che fanno puntualmente stragi di civili, come ha documentato anche il New York Times.

 

Ma vediamo qualche cifra: da quest’anno. In Niger: 470 persone, 130 mezzi terrestri, 2 aerei, per 49,5 milioni di euro nel solo 2018. In Libia: 400 soldati per 35 milioni di euro. Per potenziare lo spazio aereo della NATO: 250 militari e 12 milioni e 586mila euro. In Tunisia: 60 persone e 4 milioni e 900mila euro. In Repubblica Centrafricana: 324.260 euro. In Marocco: due soldati e 302.839 euro. A questi numeri bisogna aggiungere i costi per le truppe già operative su altri fronti di guerra: Afganistan (101 milioni), Iraq (162 milioni), Libano (102 milioni), Mare sicuro (63 milioni) e Sophia (31 milioni), Lettonia (15 milioni).

 

Le operazioni militari ci costano un sacco di soldi che ovviamente potrebbero essere utilizzati in altro modo. Viste le condizioni in cui versano gli ospedali pubblici, in perenne carenza di personale, e le scuole che cadono letteralmente a pezzi, potrebbero essere dirottati in quei settori. Siamo un paese fragile dal punto di vista morfologico, ne sappiamo qualcosa di frane e alluvioni dalle nostre parti: perché non usare quei soldi per mettere in sicurezza il territorio?

Finché prevarranno i grandi interessi industriali, commerciali e militari sicuramente ciò che noi auspichiamo non avverrà. Sta a noi provare a far maturare buon senso e opinioni dissidenti, con l’aiuto delle quali un giorno riusciremo a far cambiare direzione a queste scellerate politiche portate avanti da poche, avide persone che sfruttano, affamano e distruggono il pianeta.