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LE LORO GUERRE, I NOSTRI MORTI
La volontà di Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e di riconoscere unilateralmente la città come capitale indivisibile d’Israele sta accendendo le ire dei palestinesi, e non solo. E’ una mina che farebbe collassare il già fragile castello di carte del diritto internazionale, il quale stabilirebbe la divisione della città in due, favorendo la soluzione dei due popoli-due stati. Diritto internazionale che di fatto Israele già non rispetta, occupando il settore est della città e rendendo davvero difficile la vita quotidiana dei palestinesi. Vita fatta di checkpoints, perquisizioni, occupazione delle case da parte dei coloni, negazione del diritto di voto e altri soprusi. Questo la dice lunga sulla pretesa dello stato ebraico di essere considerato una “democrazia”.
Ma, per comprendere l’entità di questa pericolosa mossa, si deve dare uno sguardo alle reazioni delle potenze regionali sullo scacchiere, che sono, purtroppo per i palestinesi, i veri protagonisti e manovratori.
L’Arabia Saudita (storico alleato degli USA) è quantomeno in difficoltà: pur essendosi avvicinata allo stato ebraico in chiave anti-Iran, come dimostrano le visite del re saudita alla corte di Netanyahu, non può lasciare che al-Quds (la sacra) Gerusalemme cada sotto il dominio totale ebraico-israeliano. Da protettore della cultura musulmana sunnita, il regno saudita ora è difficoltà nel prendere una posizione netta. Anche se, come è prevedibile, anteporrà i propri interessi strategici agli interessi dei palestinesi.
Il sultano sunnita Erdogan, a capo di una Turchia sempre meno laica, sembra approfittare del silenzio assordante dei sauditi e pare avere le idee un poco più chiare. Ieri aveva indicato Gerusalemme come una “linea rossa” che Israele non deve oltrepassare, e aveva incitato (a parole) gli altri stati musulmani a tagliare le relazioni diplomatiche con Israele.
Ma le reazioni più dure, non a caso, sono arrivate da Ali Khamenei, leader supremo sciita della Repubblica islamica iraniana, potenza nucleare alleata della Russia e nemica giurata dello stato ebraico e delle monarchie sunnite del golfo (Arabia saudita, Qatar, Emirati Arabi). “Segno di incompetenza e fallimento. La Palestina sarà libera e i palestinesi vinceranno”, così ha detto, appunto, Khamenei, che tra l’altro esce rinforzato dallo scenario siriano nel quale ha visto il proprio cavallo, il dittatore Assad, avere la meglio sui cavalli delle monarchie sunnite del golfo.
Alla luce di tutto ciò, che sia l’Iran l’obiettivo di questa neanche troppo folle azione diplomatica e pratica? Solo l’evolversi della Storia ce lo dirà. Quello che sappiamo di certo è che, in realtà, ai piani alti, il destino dei palestinesi in quanto popolo oppresso sembra interessare relativamente, o meglio, strumentalmente. In questo complicato gioco di potenze, sotto il quale si celano grandi interessi strategici ed economici, nel quale la religione è usata come strumento della politica e della propaganda, a farne le spese è la gente comune. Palestinese, israeliano, siriano, kurdo o yemenita che sia, il sangue sparso per terra è troppo spesso quello di chi si alza al mattino, porta i bambini a scuola e va a lavorare. Persone comuni, la cui vita viene a volte distrutta, a volte stravolta da decisioni prese dalle grandi borghesie nazionali e dalle classi governanti che giocano a farsi la guerra, col sangue dei popoli.