“Aiutiamoli (a starsene) a casa loro”

“Aiutiamoli a casa loro” è lo slogan che sempre più viene ripetuto come un mantra da parte di gran parte dei partiti politici. Detto fatto: il governo Gentiloni non ha perso l’occasione per declinarlo a modo suo, e come ultimo lascito del suo operato ha approvato, con i voti del PD e della destra in Parlamento, una missione militare in Niger (ex-colonia francese). Un contingente di 470 soldati andrà ad ingrossare le fila dei 3000 militari francesi già presenti sul territorio nigerino con l’operazione “Barkhane”, nel quadro più ampio della missione del G5-Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso, Ciad e Mauritania).

Le motivazioni ufficiali, neanche a dirlo, sarebbero la lotta al terrorismo islamista e la lotta ai traffici di esseri umani; ma sappiamo bene che quando si tratta di missioni militari esistono sempre degli obiettivi e delle strategie che vengono celati, neanche troppo bene a dire la verità, come il mantenimento dell’influenza politica e lo sfruttamento delle risorse naturali. Se la Francia è presente in quell’area anche per proteggere gli enormi giacimenti di uranio sfruttati dal gigante di stato Areva, l’Italia sembra voler mettere gli scarponi sul terreno per supportare la politica neo-coloniale francese (in cambio di cosa?), e soprattutto per bloccare i sentieri battuti dai migranti che cercano di attraversare il deserto per raggiungere le sponde sud del Mediterraneo. Insomma, aiutiamoli a starsene a casa loro. D’altronde com’è che si dice? Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

 

Il Niger è solo l’ultimo di una serie di paesi nei quali l’Italia è impegnata a difendere i sacri interessi nazionali o con i quali stringe rapporti economico-militari importanti. Si pensi ad esempio alla Nigeria, stato dal quale tantissime persone partono alla volta dell’Europa (passando proprio dal Niger), e nel quale l’Eni fa affari d’oro e disastri ecologici sfruttando il petrolio e il gas nella zona del delta del fiume Niger, senza nessun rispetto per le popolazioni locali. Si pensi all’Arabia Saudita, alla quale l’Italia (che ripudia la guerra) vende le bombe fabbricate in Sardegna, che vengono utilizzate nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti e che fanno puntualmente stragi di civili, come ha documentato anche il New York Times.

 

Ma vediamo qualche cifra: da quest’anno. In Niger: 470 persone, 130 mezzi terrestri, 2 aerei, per 49,5 milioni di euro nel solo 2018. In Libia: 400 soldati per 35 milioni di euro. Per potenziare lo spazio aereo della NATO: 250 militari e 12 milioni e 586mila euro. In Tunisia: 60 persone e 4 milioni e 900mila euro. In Repubblica Centrafricana: 324.260 euro. In Marocco: due soldati e 302.839 euro. A questi numeri bisogna aggiungere i costi per le truppe già operative su altri fronti di guerra: Afganistan (101 milioni), Iraq (162 milioni), Libano (102 milioni), Mare sicuro (63 milioni) e Sophia (31 milioni), Lettonia (15 milioni).

 

Le operazioni militari ci costano un sacco di soldi che ovviamente potrebbero essere utilizzati in altro modo. Viste le condizioni in cui versano gli ospedali pubblici, in perenne carenza di personale, e le scuole che cadono letteralmente a pezzi, potrebbero essere dirottati in quei settori. Siamo un paese fragile dal punto di vista morfologico, ne sappiamo qualcosa di frane e alluvioni dalle nostre parti: perché non usare quei soldi per mettere in sicurezza il territorio?

Finché prevarranno i grandi interessi industriali, commerciali e militari sicuramente ciò che noi auspichiamo non avverrà. Sta a noi provare a far maturare buon senso e opinioni dissidenti, con l’aiuto delle quali un giorno riusciremo a far cambiare direzione a queste scellerate politiche portate avanti da poche, avide persone che sfruttano, affamano e distruggono il pianeta.  

La storia resistente del 13/12/1970. Alba Antifascista.

Il 13/12 del 1970, ad Alba, (ex libera Repubblica partigiana) , uno scontro di piazza segnò la storia. E la città si schierò, in modo netto, come a gridare “Sono Antifascista!”.

Infatti il Fuan (Fronte universitario d’azione nazionale) ed Europa Civiltà, due gruppi neofascisti, organizzarono un comizio dai toni nostalgici; la cittadina cuneese si prestava a provocazioni e a istigazioni per via dell’identità derivante dal suo primato durante la guerriglia di Resistenza. Gli ‘ultradestristi’  erano capitanati da Loris Facchinetti, antisovietico e fondatore del partito succitato. Non ebbero successo in quel frangente.
I cittadini albesi si opposero in massa: anarchici, comunisti e dissidenti di varie estrazioni sociali e culturali, si trovarono in piazza per proferire un poderoso No a qualsiasi rigurgito nazionalista.
E l’azione di contrasto ebbe i suoi frutti: oggi in città c’è chi parla di sassaiole, chi si ricorda di spari in piazza Savona, altri rammentano una mobilitazione colorata e significativa, con bandiere, cori e urla di sdegno. In definitiva i fascisti fuggirono a gambe levate e con loro l’ apologia che tentavano di riesumare.

Ci teniamo  a sottolineare come la nostra umile ricerca storica, affondi le sue radici nelle vicende di strada oltre che nell’analisi dei documenti sotto allegati: in altre parole, senza le storie narrate da chi vive i marciapiedi, le bettole o il ciottolato della città, avremmo scoperto nulla: per esempio Walter, da 60 anni albese, rammenta quel giorno come fosse ieri, nonostante fosse un giovanissimo studente. Il suo maestro delle scuole medie, più sconvolto del solito (addirittura sbavava tanto era eccitato), raccontò a lui e a altri ragazzini ciò che era appena capitato, enfatizzando l’eroicità degli albesi. Non tenne alcuna lezione d’italiano, bensì per tre ore si discusse dell’atto  di resistenza appena conclusosi. O ancora Antonio, classe ’50, ricorda d’avere avuto in mano un sanpietrino, ma di avere avuto paura e tremiti; “le bandiere rosse ci davano forza”, dice. Poi Maria, che accompagnava il marito, e che tentava di sedarlo, che se non c’era lei ci sarebbe scappato il morto tanto lui era indignato.
Così continuando la tessitura di un filo lungo settant’anni, contrastante violente politiche d’odio razziale e di prevaricazione, confidiamo nel fatto che dalla storia s’impari e  a 47 anni di distanza, ricordiamo tale episodio come il 13 / 12, cioè la cacciata dei neofascisti da Alba, Prima Libera Repubblica Partigiana.

 

Bibliografia:

 

Vent’anni di violenza politica in Italia, Isodarco
“La destra siamo noi” , Bur, Pansa

LE LORO GUERRE, I NOSTRI MORTI

La volontà di Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme e di riconoscere unilateralmente la città come capitale indivisibile d’Israele sta accendendo le ire dei palestinesi, e non solo. E’ una mina che farebbe collassare il già fragile castello di carte del diritto internazionale, il quale stabilirebbe la divisione della città in due, favorendo la soluzione dei due popoli-due stati. Diritto internazionale che di fatto Israele già non rispetta, occupando il settore est della città e rendendo davvero difficile la vita quotidiana dei palestinesi. Vita fatta di checkpoints, perquisizioni, occupazione delle case da parte dei coloni, negazione del diritto di voto e altri soprusi. Questo la dice lunga sulla pretesa dello stato ebraico di essere considerato una “democrazia”.

 

Ma, per comprendere l’entità di questa pericolosa mossa, si deve dare uno sguardo alle reazioni delle potenze regionali sullo scacchiere, che sono, purtroppo per i palestinesi, i veri protagonisti e manovratori.

L’Arabia Saudita (storico alleato degli USA) è quantomeno in difficoltà: pur essendosi avvicinata allo stato ebraico in chiave anti-Iran, come dimostrano le visite del re saudita alla corte di Netanyahu, non può lasciare che al-Quds (la sacra) Gerusalemme cada sotto il dominio totale ebraico-israeliano. Da protettore della cultura musulmana sunnita, il regno saudita ora è difficoltà nel prendere una posizione netta. Anche se, come è prevedibile, anteporrà i propri interessi strategici agli interessi dei palestinesi.

Il sultano sunnita Erdogan, a capo di una Turchia sempre meno laica, sembra approfittare del silenzio assordante dei sauditi e pare avere le idee un poco più chiare. Ieri aveva indicato Gerusalemme come una “linea rossa” che Israele non deve oltrepassare, e aveva incitato (a parole) gli altri stati musulmani a tagliare le relazioni diplomatiche con Israele.

Ma le reazioni più dure, non a caso, sono arrivate da Ali Khamenei, leader supremo sciita della Repubblica islamica iraniana, potenza nucleare alleata della Russia e nemica giurata dello stato ebraico e delle monarchie sunnite del golfo (Arabia saudita, Qatar, Emirati Arabi). “Segno di incompetenza e fallimento. La Palestina sarà libera e i palestinesi vinceranno”, così ha detto, appunto, Khamenei, che tra l’altro esce rinforzato dallo scenario siriano nel quale ha visto il proprio cavallo, il dittatore Assad, avere la meglio sui cavalli delle monarchie sunnite del golfo. 

Alla luce di tutto ciò, che sia l’Iran l’obiettivo di questa neanche troppo folle azione diplomatica e pratica? Solo l’evolversi della Storia ce lo dirà. Quello che sappiamo di certo è che, in realtà, ai piani alti, il destino dei palestinesi in quanto popolo oppresso sembra interessare relativamente, o meglio, strumentalmente. In questo complicato gioco di potenze, sotto il quale si celano grandi interessi strategici ed economici, nel quale la religione è usata come strumento della politica e della propaganda, a farne le spese è la gente comune. Palestinese, israeliano, siriano, kurdo o yemenita che sia, il sangue sparso per terra è troppo spesso quello di chi si alza al mattino, porta i bambini a scuola e va a lavorare. Persone comuni, la cui vita viene a volte distrutta, a volte stravolta da decisioni prese dalle grandi borghesie nazionali e dalle classi governanti che giocano a farsi la guerra, col sangue dei popoli. 

The Antifascists – da Atene a Malmo, lotta nelle strade

Svezia e Grecia, seppur agli antipodi a livello geografico-sociale, paiono collegate da un intricato filo politico. In entrambi i Paesi la ‘rinascita delle nuove destre” sta caratterizzando la storia dai primi anni ’00 ad oggi.  E i movimenti popolari neonazisti hanno mutato la loro conformazione, trasformandosi in veri e propri partiti politici, e conquistando l’8% alle urne.

Le reazioni conflittuali, l’organizzazione di una respinta sensata e l’attivismo militante delle cittadinanze in opposizione al neofascismo (e all’odio razziale) sono gli elementi scandagliati e analizzati nel documentario scritto e diretto da Patrik Öberg ed Emil Ramos: The Antifascists, è un film in tour da quest’anno in tutta Europa.
Malmo, Stoccolma e Atene sono i poli attorno a cui ruotano le interviste che donano anima all’inchiesta. Perlopiù attivisti, ma anche giornalisti e poliziotti, sono stati interpellati per tracciare un quadro completo di come lo sdoganamento di ideali obsoleti, provochi null’altro che tensione sociale.
La tecnica di regia sopraffina, il gusto per i dettagli dell’underground (un passamontagna, una molotov, un adesivo), alleggeriscono le sequenze focalizzate sulla violenza fisica, sui morti della lotta, dalla cenere delle quali hanno spesso preso vita movimenti antagonisti e anticapitalisti. Anni di manifestazioni imponenti, attacchi e contrattacchi hanno completato un capitolo storico; testimonianze fondamentali per comprendere i cambiamenti socio-culturali quantomeno a livello europeo.

Per concludere, citiamo i tre punti cardine attorno ai quali il documentario ruota: una voce fuori campo dona alcuni consigli per dimostrarsi un buon antifascista:

1) Mai discutere con organizzazioni fasciste: si legittimerebbe la loro esistenza. Non sono avversari degni.
2) (Ri)Prendere le strade, non lasciarle alle organizzazioni fascista: conquisterebbero consensi infondendo paura, non solidarietà.
3) Non permettere che organizzazioni fasciste prendano posto nel teatro e nel dibattito politico – occorre trovare i mezzi per delegittimare i partiti di estrema destra (che spesso cuciono idee di destra a idee di sinistra).

 

Per informazioni utili riguardo la programmazione del film visita la pagina: https://www.facebook.com/theantifascists/

A ECCEZIONE DEL CIELO – AUTOBIOGRAFIA DI UN ADOLESCENTE RIVOLUZIONARIO

La violencia. Una guerra insensata, mossa dai padroni; un conflitto che vide i poveri sparare sui loro concittadini, noncuranti di un dettaglio basilare: la divisione tra liberali e conservatori avrebbe favorito, indipendentemente dall’esito finale, o la medio borghesia in arricchimento o gli apparati ecclesiastici insieme con l’aristocrazia; al proletariato, ai contadini e agli operai, sarebbe toccata la medesima (perenne) sorte: miseria, fame e precarietà.

L’autobiografia di Juan Gabriel Caro Montoja, giornalista ucciso nel 1989 dai narcotrafficanti di Medelin, risale alla metà del ventesimo secolo, agli albori della guerra civile colombiana. La data di pubblicazione del libro è il 1977, ma il testo si riferisce a un ventennio prima: negli anni ’50 le Farc (forze armate rivoluzionarie della Colombia) dovevano ancora formarsi e la guerra dei comunisti colombiani– sulla falsa riga della rivoluzione cubana – sarebbe cominciata una dozzina d’anni più tardi, quando l’autore avrebbe già lasciato il suo paese natio, per emigrare in Europa. Ecco perché Montoya potrebbe definirsi un precursore, un visionario o il predecessore delle organizzazioni paramilitari campesinas. (Tale aspetto è ben descritto e nell’epilogo di Lietta Tornabuoni: un dirottamento di un aereo di linea da Bogotà a Cuba, compiuto da un solitario Montoja diciassettenne).

A quattordici anni il libro inizia, e a sedici finisce. Una famiglia con decine di figli da mantenere, la paura dei fulmini, la selva profumata e l’incertezza di un pasto caldo, sono le suggestioni con le quali Montoja descrive la purezza dei bassifondi – ingenui e cattolicissimi, ma in modo più scaramantico che remissivo. Difatti trapela odio per i preti , che porterà il protagonista a fuggire dal seminario (sinonimo di stabilità economica), per sposare la causa sindacale e per appoggiare il lavoro dei compagni marxisti e guevaristi. Seppur l’autobiografia pare incompleta, come se la storia dovesse proseguire (per intenderci, la bocca del lettore resta parecchio asciutta a fine libro), la carica emotiva, la rabbia e la durezza di un bambino obbligato a impugnare le armi, affiorano e colpiscono in faccia il torpore e l’accidia tipici del dopo duemila. È la genesi d’una ribellione, delle riappropriazioni terriere e dell’insurrezione – l’incipit di un colossale spargimento di sangue – che spesso nella quotidianità delle classi sociali deboli, da incubo si trasformava in sogno e viceversa.