La violencia. Una guerra insensata, mossa dai padroni; un conflitto che vide i poveri sparare sui loro concittadini, noncuranti di un dettaglio basilare: la divisione tra liberali e conservatori avrebbe favorito, indipendentemente dall’esito finale, o la medio borghesia in arricchimento o gli apparati ecclesiastici insieme con l’aristocrazia; al proletariato, ai contadini e agli operai, sarebbe toccata la medesima (perenne) sorte: miseria, fame e precarietà.
L’autobiografia di Juan Gabriel Caro Montoja, giornalista ucciso nel 1989 dai narcotrafficanti di Medelin, risale alla metà del ventesimo secolo, agli albori della guerra civile colombiana. La data di pubblicazione del libro è il 1977, ma il testo si riferisce a un ventennio prima: negli anni ’50 le Farc (forze armate rivoluzionarie della Colombia) dovevano ancora formarsi e la guerra dei comunisti colombiani– sulla falsa riga della rivoluzione cubana – sarebbe cominciata una dozzina d’anni più tardi, quando l’autore avrebbe già lasciato il suo paese natio, per emigrare in Europa. Ecco perché Montoya potrebbe definirsi un precursore, un visionario o il predecessore delle organizzazioni paramilitari campesinas. (Tale aspetto è ben descritto e nell’epilogo di Lietta Tornabuoni: un dirottamento di un aereo di linea da Bogotà a Cuba, compiuto da un solitario Montoja diciassettenne).
A quattordici anni il libro inizia, e a sedici finisce. Una famiglia con decine di figli da mantenere, la paura dei fulmini, la selva profumata e l’incertezza di un pasto caldo, sono le suggestioni con le quali Montoja descrive la purezza dei bassifondi – ingenui e cattolicissimi, ma in modo più scaramantico che remissivo. Difatti trapela odio per i preti , che porterà il protagonista a fuggire dal seminario (sinonimo di stabilità economica), per sposare la causa sindacale e per appoggiare il lavoro dei compagni marxisti e guevaristi. Seppur l’autobiografia pare incompleta, come se la storia dovesse proseguire (per intenderci, la bocca del lettore resta parecchio asciutta a fine libro), la carica emotiva, la rabbia e la durezza di un bambino obbligato a impugnare le armi, affiorano e colpiscono in faccia il torpore e l’accidia tipici del dopo duemila. È la genesi d’una ribellione, delle riappropriazioni terriere e dell’insurrezione – l’incipit di un colossale spargimento di sangue – che spesso nella quotidianità delle classi sociali deboli, da incubo si trasformava in sogno e viceversa.